Il Palazzo Ammicc, abitato ancora oggi, è una delle attrazioni architettoniche più amate di Bernalda.
Questa attrazione si slega dal mero stile artistico medievale, poiché sono le leggende, le dicerie, i pettegolezzi a renderla chiacchierata e visitata.
Una leggenda narra di un uomo molto, molto ricco proprietario di un grande immobile ubicato nel centro storico della città. Tuttavia, la magnanima famiglia di questo signore permetteva a diversi contadini di coabitarvi gratuitamente, a patto di lavorare nei propri terreni lasciando che i bimbi giocassero nell’atrio del palazzo stesso.
Prima di morire, il signore nascose un ingente tesoro (formato anche da una chioccia in oro con tredici pulcini, riprodotta a dimensione reale e tutta in oro) in un luogo segreto.
Per scovare tali preziosi era necessario sacrificare un bambino non ancora battezzato: questa richiesta non fu mai esaudita e quindi, a oggi, Palazzo Ammicc resta custode inconsapevole di un’enorme ricchezza.
Pare che il nome del palazzo derivi dal nome della padrona: Lalla Micca. Ancora si suppone, invece, che provenga da Lambicco o D’amico.
Stando alle voci, la famiglia pare avesse più figlie femmine che maschi, da cui il detto:
palazz ammic femmn assje uommn picc
(Palazzo Ammicc: donne tante e uomini pochi).
La ricchezza della famiglia ingolosiva anche i malviventi tant’è che un giorno una zingara si intrufulò a palazzo, mimetizzandosi tra la servitù. Proprio in quel periodo, infatti, la valle del Basento ospitava un accampamento Rom.
La donna finse di pettinare i capelli della matrona finché non ne vide una bellissima figlia: senza indugio la rapì fino a farle dimenticare la famiglia d’origine. La povera madre, costernata, finì per ammalarsi dal dolore, attendendo invano il ritorno della sua erede.
Anni e anni dopo quegli zingari ritornarono nei pressi, proprio durante il funerale della padrona del palazzo omaggiata dal suono delle campane della chiesa Madre. La bimba, nel frattempo divenuta donna, le udì riconoscendole e, certa che le campane suonassero solo per personaggi di rilievo, insistette per conoscere l’identità del celebrato fino a saperlo proprio da quei rapitori, che già erano a conoscenza del triste evento.
Guidata dal sentimento, volle dare l’estremo saluto a sua madre promettendo agli zingari che, se glielo avessero permesso, sarebbe tornata come questi le avevano fatto giurare.
Giunta al capezzale, la giovane donna pronunciò queste parole:
Signura mia signura, tu jer a pampn e ii jer l’uv, dnar n’ tniev senz misur ma nun ma saput ammuntuà la mia vntur
(signora , mia signora tu eri il tralcio e io ero l’uva , di denaro ne avevi senza misura, ma non hai saputo indovinare la mia ventura).
Udendo queste parole i suoi fratelli la riconobbero e la rincorsero invano, perché ella restò fedele alla parola data ai rom.
Una versione della leggenda ritiene che, proprio un fratello, accecato dalla rabbia si affacciasse alla finestra aperta sulla valle sparandole dei colpi di fucile, uccidendola e “strappandola” agli zingari che a propria volta l’avevano rapita a lui e alla sua famiglia.
Forse è proprio quella la finestra che, a palazzo, attualmente è murata fuori dalla quale la signora aspetterebbe ancora il ritorno della figlia.
Il punto in cui la ragazza, invece, è stata uccisa è denominato
U cuozz d l zingr.